Meloni invita le opposizioni al dialogo. Schlein: ma non ci porti in guerra

Alla Camera Giorgia Meloni interviene in vista della riunione del Consiglio europeo del 26 e 27 giugno 2025 e chiede disponibilità al dialogo; i partiti di centrosinistra rispondono con toni diversi, nonostante rivolgano alla presidente del Consiglio una richiesta condivisa in merito alla crisi in Iran, che torna nei vari interventi e si riassume così: “Meloni dica con chiarezza che non concederà l'utilizzo delle basi americane su suolo italiano”. Su questo, come su altri punti, le opposizioni non rinunciano a incalzare la premier che nel suo discorso si rivolge direttamente ai leader seduti nello spicchio di emiciclo opposto a quello occupato dai suoi deputati: “Penso che in questa fase così delicata sia importante il dialogo tra governo e opposizione per il bene e la sicurezza degli interessi della nostra nazione”, “Farò del mio meglio per mantenere e ampliare questo dialogo”. L'invito arriva dopo il confronto telefonico avuto con Elly Schlein. La premier non ha ricevuto chiamate da altri partiti dell'opposizione, e quella della segretaria del Pd è stata particolarmente “apprezzata”. 

E così, in Aula, il botta e risposta è serrato, ma non vengono sferrati colpi proibiti. Nessun attacco frontale, che invece viene mosso dal presidente del M5S Giuseppe Conte. Schlein dice di apprezzare il fatto che Meloni “lavorerebbe per la soluzione diplomatica”, “Ma pretendiamo una parola di chiarezza sul futuro, dica chiaramente che l'Italia non si farà trascinare in questa guerra”, puntualizza la leader dem. Che non rinuncia a qualche punzecchiatura: “Lei è riuscita a fare un'intera relazione senza nominare i due principali responsabili dell'escalation: Trump, suo amico, e Netanyahu”. Schlein tiene il punto e incalza anche sull'obiettivo del 5% in spese militari: “Siamo contrari, è dannoso, irrealistico e sbagliato, e porterebbe alla fine dello Stato sociale in Italia”. 

Più affilato l'intervento del presidente del M5S Giuseppe Conte, che non cita mai il “dialogo” invocato da Meloni e attacca: “Domani saremo a pochi passi da lei all'Aia e le staremo col fiato sul collo, perché lei finalmente pensi al bene degli italiani, e non che la soluzione sia riempire gli arsenali di carri armati, missili e armi”. Conte accusa Meloni di “subalternità a Washington e Bruxelles” e di anteporre la difesa dei suoi “leader alleati” a quella della sicurezza nazionale. Duri anche gli interventi di Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, che muovono la stessa accusa di “subalternità” alla premier e avvisano: “Sì al dialogo, purché questo non significhi passività delle opposizioni”. Insomma, i partiti di centrosinistra, che hanno già firmato insieme diverse mozioni comuni sul Medio Oriente, non rinunciano a tenere alta la pressione. Ma PdM5S e Avs si dividono sulle risoluzioni votate in vista del Consiglio europeo, soprattutto su un punto della mozione M5S, quello che impegna il governo a “intensificare gli sforzi a livello europeo per trovare una soluzione efficace alla questione del transito e approvvigionamento del gas che non escluda a priori e pro futuro una possibile collaborazione con la Russia”. Il voto contrario arriva sia da Avs che dal Pd. Che vota contro anche sul punto in cui i pentastellati chiedono di interrompere la fornitura di armi a Kiev

Meloni difende il riarmo: “Si vis pacem, para bellum”

Secondo round delle comunicazioni di Giorgia Meloni in vista del Consiglio europeo; teatro della disputa, l'Aula di Palazzo Madama. Dai banchi del Governo, la premier ascolta gli interventi dei senatori e dalle opposizioni più di qualcuno prova ad attaccare. Il Pd insiste sul “nazionalismo” della premier e sulla “subalternità a Trump”. Il leader di Iv Matteo Renzi la punzecchia sul caso Paragon e sulla politica estera. Il M5S la attacca sul riarmo. Ma Meloni smorza subito gli acuti del centrosinistra: “Non risponderò alle provocazioni e alle falsità che ho sentito”, afferma e poi avvisa: “Avremo tempo per i toni da campagna elettorale, ma non è questo il tempo”. Eppure, la premier non rinuncia a ingaggiare qualche botta e risposta con le opposizioni. Con la crisi mediorientale in rapida evoluzione, l'oggetto del contendere diventa l'impegno dell'esecutivo sulla difesa in vista del vertice Nato: “La penso come i romani, si vis pacem, para bellum”, è la citazione che Meloni sceglie per tornare a difendere l'obiettivo del 5% di Pil in spese per la difesa che sarà discusso all'Aia; “Se si hanno dei sistemi di sicurezza e di difesa solidi si possono più facilmente evitare dei conflitti”. 

Sulla posizione arriva la netta contrarietà della segretaria del Pd: “Rispetto a 2000 anni fa il mondo ha fatto dei passi in avanti nella risoluzione delle controversie”, replica Elly Schlein in una nota, “Preparare la guerra, come pensa lei, è il contrario di quello che serve e vuole l’Italia. Il nostro Paese deve impegnarsi per costruire la pace, per la risoluzione pacifica dei conflitti attraverso dialogo e multilateralismo”. In Aula Francesco Boccia ribadisce la contrarietà del Pd all'obiettivo del 5%. Graziano Delrio, richiamando un intervento di Mattarella sul multilateralismo, evidenzia i rischi di “un'azione frammentata dei singoli Stati”. “È una semplificazione dire che è tutta colpa del nazionalismo”, ribatte Giorgia Meloni, spiegando: “Per anni ci è stato raccontato che il libero commercio avrebbe risolto tutti i problemi e distribuito la ricchezza. E che questo avrebbe rafforzato tutti. Le cose sono andate molto diversamente. I sistemi meno democratici dei nostri hanno guadagnato campo nel mondo approfittando del libero commercio senza regole e le democrazie si sono indebolite. Mentre i regimi si sono rafforzati”. “Non è il nazionalismo che vuole indebolire l'Europa. L'Europa si è indebolita da sola, grazie a quelli che pensavano che dovesse essere un super Stato burocratico che limitava la possibilità degli Stati nazionali di esprimersi”. 

Agli attacchi pentastellati sul riarmo, la premier risponde con ironia: “Vorrei tanto essere Giuseppe Conte invece sono Giorgia Meloni, nella vita non si può sempre essere fortunati”. Poi affonda: “Conte ha detto che non ha sottoscritto l'impegno del 2%, ma una firma è una firma signori, e quella firma è stata messa”. Dall'Aia, dove il presidente M5S riunisce diversi partiti europei per contestare il piano di riarmo, arriva la replica: “È una falsità, io non ho firmato nessun 2%, è stato firmato nel 2014, mentre ero professore a Firenze”. A incalzare la premier in Aula c'è Matteo Renzi, che attacca anche il Ministro degli Esteri Antonio Tajani strappando qualche sorriso sui banchi del governo; l'ex premier rivolge quattro domande alla premier sulla politica estera, esprimendo la convinzione che “questo Governo per me non conta assolutamente niente”; Meloni risponde secca: “Gli unici a poter giudicare se l'Italia conta sono gli italiani”. 

Il vertice Nato fissa il target al 5% per la difesa. Soddisfazione di Meloni

“Ce l'ho fatta. La Nato ha aumentato drasticamente la spesa per la difesa fino al 5% del Pil, una cosa che nessuno avrebbe mai creduto possibile” e se ne va soddisfatto dal vertice dell'Aja il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. È una dichiarazione insolitamente breve e concisa quella che i 32 leader dell'Alleanza atlantica hanno sottoscritto: si parla della “minaccia a lungo termine rappresentata dalla Russia per la sicurezza euro-atlantica”, una definizione più moderata di quella degli anni passati. Sull'Ucraina c'è solo un breve capitolo, con “l'impegno sovrano duraturo” degli alleati “a fornire supporto all'Ucraina”. Non c'è più l'aumento del “sostegno a lungo termine all'Ucraina”, né il riferimento al futuro percorso di adesione dell'Ucraina nella Nato. Fugati anche i timori di un disimpegno Usa verso gli alleati europei, considerati più volte dal nuovo inquilino della Casa Bianca. “Riaffermiamo il nostro ferreo impegno per la difesa collettiva, come sancito dall'Articolo 5 del Trattato di Washington: un attacco a uno è un attacco a tutti”, si legge nel testo. 

Il vertice dell'Aja, tuttavia, sarà ricordato per la svolta sulle spese per la difesa. Gli alleati si impegnano a “investire il 5% del Pil all'anno in requisiti fondamentali per la difesa, nonché in spese relative alla sicurezza, entro il 2035”. E stanzieranno almeno il 3,5% del Pil all'anno, sulla base della definizione concordata di spesa per la difesa della Nato, entro il 2035, per i requisiti fondamentali per la difesa e il raggiungimento degli Obiettivi di Capacità della Nato, capacità che vengono ridefinite ogni quattro anni. “Gli Alleati concordano di presentare piani annuali che indichino un percorso credibile e progressivo per raggiungere questo obiettivo”. Gli Stati dovranno poi investire un altro 1,5% per “proteggere le infrastrutture critiche, difendere le reti, garantire la nostra preparazione e resilienza civile, stimolare l'innovazione e rafforzare la nostra base industriale di difesa”. Tali obiettivi saranno rivisti fra 4 anni. 

L'Italia, che a fatica ha raggiunto il target del 2% deciso nel 2014, dopo aver temuto e ritenuto impossibile per mesi un incremento al 3,5%, ha accettato il nuovo obiettivo. Per la premier Giorgia Meloni si tratta di una “decisione sostenibile”, presa “con cognizione di causa, facendo le nostre valutazioni con il Ministro dell'Economia”. “C'è una flessibilità totale”, afferma, “per l'ampiezza delle spese, per il fatto che noi parliamo di un impegno da 10 anni, per il fatto che nel 2029 si deve in ogni caso ridiscutere, per il fatto che non ci sono incrementi obbligati annuali per gli Stati membri”. E “per l'Italia sono spese necessarie per rafforzare la nostra difesa e sicurezza in un contesto che lo necessita” senza distogliere “neanche un euro dalle altre priorità del Governo”. Per la Segretaria del Pd Elly Schlein il target invece è “irrealistico, dannoso e sbagliato” per l'Italia che non ha scelto la strada intrapresa dal premier spagnolo Pedro Sanchez, che per la leader dell'opposizione,“ha dimostrato che si può dire No. Giorgia Meloni non sa mai dire no a Donald Trump”. La posizione del premier spagnolo fa discutere e ha suscitato molte critiche nel vertice. Tanti leader hanno biasimato l'interpretazione del leader socialista, che continua a ritenere di aver ottenuto una deroga a poter spendere solo il 2,1%, grazie a una lettera del Segretario generale Mark Rutte. 

La maggioranza Ursula scricchiola. Schlein strappa e il Pse avverte

Il patto tra popolari, socialisti e liberali che soltanto un anno fa consegnò il secondo mandato a Ursula von der Leyen traballa sulle questioni green. Accusata di riscrivere le regole a colpi di interpretazioni unilaterali, accentrare il potere e cedere alla destra, la presidente della Commissione Ue è al centro di una tempesta istituzionale che ne mette a repentaglio la maggioranza. “I nostri voti non sono garantiti e i nostri voti contano”, è stato lo strappo della segretaria del Pd Elly Schlein dalla Summer school dei dem a Bruxelles a dare ulteriore forza alla lettera firmata dalle capogruppo di socialisti e liberali per chiedere alla numero uno del Parlamento europeo Roberta Metsola di agire davanti all'ennesima marcia indietro su quel Green deal annunciato nel 2019 dalla tedesca come “il momento dell'uomo sulla Luna” e accantonato in nome di un asse alternativo parallelo tra il Ppe e i Conservatori Ue di Giorgia Meloni. L'annuncio a freddo di Palazzo Berlyamont, una settimana fa, del ritiro della direttiva contro il greenwashing su pressione degli stessi popolari di von der Leyen ha riacceso le tensioni. 

“Siamo sull'orlo di una crisi istituzionale”, è stato il monito della leader liberale di Renew Valérie Hayer, impegnata, insieme alla socialista Iratxe Garcia Perez, a esprimere con la lettera inviata alla Metsola “profonda preoccupazione” per la deriva procedurale impressa dalla von der Leyen e per i continui dietrofront ambientali: la legge sul ripristino della natura e la due diligence indebolite, la protezione del lupo ridotta, la stretta sulle sostanze chimiche allentata, la carbon tax depotenziata, gli attacchi ricorrenti alle norme anti-deforestazione. “Il nostro gruppo, in questo momento, è fortemente critico nei confronti di questa Commissione”, ha avvertito Elly Schlein, segnalando che Garcia Perez ha incontrato personalmente von der Leyen e che una riflessione sui passi da compiere è già in corso. Sarà discussa, con tutta probabilità, anche nelle prossime ore durante una cena con il premier spagnolo Pedro Sanchez e tra i leader socialisti prima del Consiglio europeo. L'ultimatum, secondo fonti interne al gruppo, sarebbe già stato proposto alla Presidente e l'appoggio alla maggioranza è ormai sul filo. 

La Casa Bianca apre sui dazi, Meloni media al Consiglio Ue

Il giorno per la scadenza della sospensione dei dazi americani potrebbe non essere il 9 luglio. A sera, mentre i 27 leader si apprestavano a sedersi alla cena di lavoro sui rapporti tra Stati Uniti ed Europa, da oltreoceano è arrivata la notizia che potrebbe ammorbidire la trattativa sulle tariffe: “La scadenza potrebbe essere prorogata, ma è una decisione che spetta al presidente”, ha annunciato la Casa Bianca. Il rinvio fa parte di una precisa strategia: la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha infatti informato i leader dell'arrivo della controproposta americana sulle tariffe, un documento che andrebbe a delineare “un accordo provvisorio” tra le controparti. Il tema, smaltiti i festeggiamenti per l'accordo sul 5% alla Nato, a Bruxelles è tornato di prepotente attualità. 

L'ombra lunga di Donald Trump ha accompagnato i 27 Capi di Stato e di governo da L'Aja a Bruxelles, dove si sono riuniti per il Consiglio europeoGiorgia Meloni, in questo quadro, non ha fatto eccezione. La premier ha avuto modo di discutere del dossier dazi con Trump nei Paesi Bassi. Ma la sua linea, nonostante la vicinanza politica al tycoon, resta fortemente ancorata all'Europa. Anzi, a Bruxelles Meloni si è trovata in una posizione mediana tra Francia e Germania, che sui dazi rischiano di scontrarsi seriamente. Berlino, sebbene Friedrich Merz abbia assicurato di sostenere gli sforzi della Commissione, da giorni spinge per un'intesa al più presto, anche se imperfetta. Parigi è ben più attendista. Dietro la formula dell'intesa al 10% vede trappole in diversi comparti economici. 

E, soprattutto, Emmanuel Macron non vuole un'intesa “asimmetrica” che, pur di evitare la tagliola del 9 luglio, si riveli troppo svantaggiosa. Meloni pur ritenendo che serva un accordo al più presto, vuole comunque vederci chiaro. “Eventuali asimmetrie vanno debitamente compensate”, hanno sottolineato fonti italiane citando, tanto per fare un esempio, i settori dell'acciaio e dell'alluminio dove le tariffe americane vanno ben oltre il 10%. Ma è la stessa Commissione Ue a essere allergica ad un accordo sul modello di quello tra Usa e Gran Bretagna. “Una cosa è certa: abbiamo bisogno di un accordo equilibrato”, ha avvertito il vicepresidente esecutivo Stéphane Séjourné. L'obiettivo europeo per il 9 luglio era trovare almeno un accordo quadro, ma la possibilità proroga annunciata dalla Casa Bianca cambia lo scenario. Il tema è che, a prescindere dai temi, Trump rischia di diventare un eterno e ingombrante convitato di pietra. Anche per Meloni. 

Al Consiglio Ue i leader dei 27 hanno parlato di difesa, dazi e Medioriente  

All'indomani del vertice Nato, con il target del 5% in difesa e sicurezza da raggiungere entro il 2035, i leader europei si ritrovano a Bruxelles nel consueto vertice di giugno. I 27 si interrogano come raggiungere tali livelli entro il 2030 e chiedono alla Commissione Ue e all'Alta rappresentante di presentare una roadmap entro ottobre. Germania e Paesi Bassi continuano a dirsi contrari a forme di finanziamento comune. Gli strumenti finora presentanti, ovvero l'utilizzo dello stop al Patto di Stabilità per quattro anni per spese per la difesa fino all'1,5% e 150 miliardi di prestiti nello strumento SAFE, mostrano i loro limiti. Al Consiglio Ue la premier Giorgia Meloni ha sollevato il tema dell'asimmetria della sospensione nazionale delle norme di governance economica, che al momento penalizzerebbero l'Italia. La Commissione Ue ha riferito che approfondirà il tema per vedere se c'è soluzione. In pratica, se un Paese è in procedura per deficit eccessivo e sta per uscirne dalla procedura, ed è il caso dell'Italia che conta di concludere il prossimo anno, attivando la clausola rimarrebbe nella procedura di infrazione. Motivo per cui all'Italia non conviene attivare la clausola ora, come hanno già chiesto 16 Stati, ma una volta uscita dalla procedura, dopo il 2026. Per l'Italia basterebbe un'interpretazione della norma da parte della Commissione, senza necessità di cambiare il testo legislativo delle regole di bilancio

Oltre ai dazi, un altro tema che ha scaldato gli animi è il Medioriente, con il riferimento entrato nelle conclusioni del vertice alla revisione dell'Accordo di Associazione Ue-Israele. I leader europei di fatto prendono atto del rapporto elaborato dal Servizio per l'Azione esterna dell'Ue che ha rilevato diverse violazioni dei diritti umani da parte di Israele e “invita il Consiglio a proseguire le discussioni su un seguito, se del caso, nel luglio 2025, tenendo conto dell'evoluzione della situazione sul campo”. L'Alta rappresentante Kaja Kallas, ma anche diversi leader, sono in pressing su Tel Aviv per avere la posizione israeliana sul report. Poi verranno messe sul tavolo dei ministri degli Esteri le varie azioni da intraprendere. Sul tema i leader sono ancora divisi tra due fronti: quello di chi invoca uno stop ai rapporti con Israele, guidato da Spagna, Irlanda e Slovenia, e quello di chi vuole mantenere il dialogo, capeggiato da Italia e Germania. 

I leader hanno proseguito il dibattito anche sui migranti. Meloni, assieme agli omologhi di Olanda e Danimarca, ha guidato la riunione dei 'falchi' sulla migrazione, a quali oggi si è aggiunto anche il cancelliere tedesco Friedrich Merz, al suo esordio al Consiglio Ue. I leader chiedono di proseguire sulla stretta sui rimpatri e sull'esplorazione di soluzioni innovative. Meloni ha anche indicato alcuni nuovi filoni di lavoro, tra cui il tema delle convenzioni internazionali e loro capacità di rispondere alle sfide della migrazione irregolare. Sull'Ucraina di nuovo le conclusioni del vertice sono state approvate a 26, senza il via libera dell'Ungheria. Oggi dovrebbe essere varato anche il 18esimo pacchetto di sanzioni, che Viktor Orban potrebbe approvare, sulla scia della linea di Trump sulle misure contro Mosca. Resta da vedere se il price cap al petrolio, dato in uscita dal pacchetto, resterà. 

Chiusa l’ipotesi terzo mandato si apre la partita delle regionali

Niente terzo mandato e niente rinvio della finestra elettorale d'autunno. Nello stesso giorno in cui il Senato mette la parola fine alla misura, fallisce anche il blitz di Vincenzo De Luca, che aveva avanzato in Conferenza delle regioni la richiesta di valutare uno slittamento per permettere di portare a termine i progetti del Pnrr e di chiudere i bilanci, come dice il ministro leghista Roberto Calderoli e pure Massimiliano Fedriga; il quale, dopo avere trovato in Conferenza il muro di Eugenio Giani alla proposta De Luca, fa sapere che comunque sottoporrà la questione al Governo. Nel frattempo, il governatore campano, come il veneto Luca Zaia, sono quindi davvero a fine corsa (salvo si dovesse materializzare il breve rinvio). E in ogni caso, spazzato definitivamente il campo dal terzo mandato, per il centrodestra ma anche per il centrosinistra, si apre la partita delle candidature per la guida delle cinque regioni in scadenza (sei con la Valle D'Aosta); due sono le questioni più spinose, non a caso il Veneto per il centrodestra e la Campania per il centrosinistra. 

L'ultimo round sui mandati si è consumato, con esito di fatto scontato, di prima mattina in commissione Affari costituzionali al Senato. L’emendamento a prima firma Paolo Tosato viene respinto con 15 voti contrari, compresi quelli di FdI. Nonostante il mancv 

ato accordo di coalizione, il partito di Matteo Salvini ha insistito per la prova del voto. Da cui esce con “amarezza”, dice sempre Calderoli, distinguendo tra la “disponibilità” di FdI e il “muro eretto da FI”. Per la maggioranza il vero nodo sarà il Veneto: “Vista la classe dirigente che ha sul territorio, FdI è in grado di esprimere un'ottima candidatura”, puntualizza il coordinatore veneto dei meloniani Luca De Carlo, tra i nomi circolati per la successione al “Doge” se Giorgia Meloni rivendicasse per il suo partito la candidatura. Ma la Lega a sua volta “auspica” di poter esprimere il nuovo presidente di Regione (e il nome potrebbe essere quello del vice di Matteo Salvini Alberto Stefani). Anche i centristi chiedono a questo punto, come fa l'Udc Antonio De Poli, di smetterla con le “prove di forza individuali” e di fare presto a individuare il candidato. 

Ovunque si sceglieranno “i migliori”, non si sbilancia il responsabile organizzazione di Fdi Giovanni Donzelli, mentre Forza Italia minimizza gli effetti sulla coalizione come fa Antonio Tajani, che prima o poi si dovrà sedere con gli altri leader, come spiega anche l'azzurro Maurizio Gasparri, per trovare una sintesi. Per ora l'unica candidatura certa nel centrodestra è quella di Francesco Acquaroli, che cerca il bis nelle Marche. Per le altre ci sono diverse ipotesi ma la quadra si potrà trovare solo sciogliendo il nodo del Veneto. In Campania in realtà si starebbe anche aspettando di vedere quello che accadrà nel campo avversario. Il centrosinistra, che il Veneto lo dà per perso, punta al 4-1 e ha già di fatto chiuso nelle Marche, dove Matteo Ricci cercherà di sfilare al centrodestra la guida della Regione. In Puglia il candidato in pectore è Antonio De Caro, ma i dem starebbero aspettando che l'indicazione del nome arrivi da tutta la coalizione. In Toscana si ricandida Eugenio Giani, che oltre ad avere osteggiato la proposta di De Luca ha anche fatto sapere che le elezioni potrebbero essere il 12 o il 19 ottobre. La Campania, per cementare il campo largo o progressista, dovrebbe andare ai 5 Stelle che punterebbero su Roberto Fico (inviso al governatore uscente). 

I sondaggi della settimana

Negli ultimi sondaggi realizzati dall’Istituto SWG il 23 giugno, tra i partiti del centrodestra torna a crescere Fratelli d’Italia che guadagna 0,2 punti e sale a 30,6%. In seconda battuta il Partito Democratico perde terreno, lasciando 0,3 punti e scendendo al 23,0%. Terza forza nazionale il Movimento 5 Stelle che cresce dello 0,1%, attestandosi al 12,4%. Tra le altre forze del centrodestra, la Lega guadagna 0,2 punti (8,3%) e scavalca nuovamente l’alleato Forza Italia che invece perde 0,2 punti (8,1%). Nella galassia delle opposizioni, AVS arresta la propria crescita, perdendo 0,2 punti e si attesta al 6.5%. I centristi vengono rilevati singolarmente con Azione (3,6%)IV (2,1%) e +Europa (1,5%). Chiude il quadro settimanale le rilevazioni di Noi Moderatiall’1,0%

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La stima di voto per la coalizione di centrodestra (FdI, Lega, FI e NM) segna +0,2% rispetto alla scorsa settimana, salendo al 48,0%. Il centrosinistra (Pd, All. Verdi Sinistra) registra il 29,5% delle preferenze perdendo 0,5 punti; fuori da ogni alleanza, il M5S, cresce di misura e si attesta all’12,4%. A chiudere il Centro che registra un risultato con segno neutro, attestandosi al 7,2%.

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  8. I sondaggi della settimana