Draghi lancia l'allarme spread: Italia si accordi con l’Ue

Anche ieri si è consumato un nuovo scontro tra la maggioranza di governo e la Banca centrale europea. A Francoforte quella che doveva essere la conferenza stampa sull'addio al QE (gli acquisti di titoli pubblici) della Bce si è trasformato in un dibattito con al centro l'Italia, che ruba la scena come non accadeva dai tempi della Grecia in piena crisi. A rispondere c’è un Draghi che, solitamente molto cauto, non si tira affatto indietro, segno che alla Bce si è accesa la spia rossa, non tanto per i contenuti della manovra, ma per i segnali di un Governo che ha fatto del contenzioso con l'Europa la sua ragione sociale.

A più riprese Draghi ha evocato persino l'ipotesi del salvataggio dell'Italia. A Francoforte sono state una decina le domande sull'Italia che piovono su Draghi. “Sono personalmente fiducioso che un compromesso si possa raggiungere”. Sul come, Draghi si è affidato alle parole di Valdis Dombrovskis, vicepresidente della Commissione Ue, presente alla riunione Bce: “Dobbiamo applicare le regole di bilancio, ma stiamo anche cercando il dialogo”. Draghi ha ribadito poi i fatti: lo spread “sta facendo salire i tassi, anche se ancora moderatamente, che famiglie e imprese devono pagare per prendere in prestito dalle banche, con un impatto sul credito, sulla crescita e su quello stesso spazio di manovra di bilancio”.

Non solo. “I 380 miliardi di Btp in pancia alle banche perdendo valore intaccano il capitale, è ovvio”, è il monito di Draghi, che si è soffermato anche sull'ipotesi che la strada imboccata dal Governo porti a successivi tagli dei rating fino al junk, che chiuderebbe alle banche la liquidità ordinaria erogata dalla Bce proprio come successo alla Grecia. Se poi, fino a pochi giorni fa, Draghi aveva spiegato che dallo spread italiano non si vedevano segni di contagio, ora “rispetto all'ultima volta che ne ho parlato, abbiamo osservato un certo aumento dei tassi in alcuni Paesi periferici dell'Eurozona, un aumento non importante, ma c’è”.

Di fronte a questo rischio, al Governo italiano Draghi ha consigliato di impegnarsi a far scendere lo spread: “Abbassare i toni, non mettere in discussione la cornice esistenziale e costituzionale dell'euro”. Ed è tornato a fare muro contro le richieste italiane di protezione da parte della Bce: “Finanziare i deficit non è nel nostro mandato”. Il caso Italia fa quasi passare in secondo piano la politica monetaria. Ma è chiaro che non cambia la tabella di marcia di un addio al quantitative easing da gennaio in poi, con reinvestimenti dei bond che man mano scadono con modalità da decidere a dicembre. I rischi di scenario continuano a essere bilanciati nonostante la Brexit, il tramonto di una ripresa che dura da anni e la guerra commerciale e il rischio Italia.

Il clima resta teso tra Roma e Bruxelles

Dopo le dichiarazioni di Draghi il clima resta teso sull'asse Roma-Bruxelles. Nonostante la bocciatura della Commissione europea, il Governo alza le spalle e tira dritto sulla manovra. “Non si cambia? Non c'è dubbio”, dice senza tentennamenti il ministro Paolo Savona. Per il responsabile degli Affari Ue “nessuna nazione vanta la stabilità dell'Italia in un contesto così difficile. Non c'è il rischio d’insolvenza”. Semmai dovrebbe essere la Bce a intervenire per scongiurare sofferenze al sistema bancario italiano, rischiando di mettere in pericolo i risparmi e il credito ad aziende e imprese: “Se le responsabilità della stabilità passano nelle mani della Banca centrale europea, dovrebbero essere loro a intervenire per evitare che il sistema entri in crisi”.

Dunque, sottolinea Savona, “ognuno si assuma le proprie responsabilità”, Mario Draghi compreso. Dalle sue parole non sembra che il Ministro abbia accolto l'invito del premier, che aveva chiesto di abbassare i toni. L'obiettivo è far scendere lo spread, perché “se sale, o se comunque si mantiene alto, è un problema, ma occorre mandare un messaggio di fiducia”, ha esortato in più occasioni Giuseppe Conte. Il Premier ha difeso la manovra “del popolo” dalle critiche, e l’ha fatto davanti a una platea particolare, i sindaci dell'Anci: “Viene descritta come particolarmente ardita, in realtà non è così” perché “prevediamo uno scostamento dal deficit molto, molto contenuto. Stiamo parlando di uno scostamento reale dello 0,4% sostenuto e giustificato da un piano d’investimenti”.

Manovra, endorsement a sorpresa di Trump: “Avrà successo”

Nel suo braccio di ferro con l'Europa, Roma può contare su un aiuto inatteso, quello del Presidente degli Stati Uniti Donald Trump. Come sempre, l'uomo della Casa bianca ha usato Twitter per comunicare al mondo di aver sentito Conte, al quale riconosce di stare “lavorando duro per l'economia italiana”, concludendo con un vero e proprio endorsement per il premier: “Avrà successo”. I tweet del presidente Usa in pochi minuti hanno fatto il giro di bacheche e profili di mezzo Governo, primo tra tutti quello di Luigi Di Maio. Il ministro dello Sviluppo economico tiene la barra dritta: “Non credo che si debba cambiare la manovra sul 2,4% di deficit, sia perché manteniamo le promesse, sia perché siamo uno Stato sovrano”.

A detta del capo politico M5S “i mercati sono preoccupati da uno storytelling falso sul fatto che l'Italia vuole uscire dall'euro, ma non abbiamo nessuna volontà di farlo”. Di Maio rende anche merito a Giuseppe Conte e Giovanni Tria che “in tutte le dichiarazioni hanno difeso la manovra”. Intanto, il Ministro dell'Economia, da Parigi dove ha incontrato gli assicuratori internazionali, è intervenuto su un altro capitolo che è sotto la lente della Commissione europea e dei mercati, quello relativo al debito pubblico italiano: “Riguarda esclusivamente gli italiani”. Ma il giudizio di Standard and Poor's è alle porte, impossibile non pensare che un'altra bocciatura non peserà sull'economia di casa nostra, anche se il giudizio che nel Governo temevano di più era quello di Moody's, che è già arrivato da qualche giorno ed è negativo. Un filotto di segni meno che, nonostante le dichiarazioni ufficiali, inizia davvero a essere preoccupante per l’inquilino di Palazzo Chigi.

Il Partito Democratico inizia il suo cammino verso il congresso

Meno uno al Forum nazionale del Pd e, forse, all'avvio del congresso. Al The Mall di Milano, sabato e domenica, potrebbe arrivare l'annuncio delle dimissioni di Maurizio Martina da segretario, precondizione per dare il via alla nuova fase. Servirà però un'assemblea apposita per ratificarle ed eleggere subito un nuovo segretario o iniziare la fase congressuale (strada auspicata da tutti, tranne dai renziani). Attesi sabato al Forum Pedro Sanchez e Walter Veltroni, dal socialismo spagnolo al riformismo italiano. È probabile che il nome di Martina si aggiunga alla rosa di candidati finora usciti allo scoperto: Nicola Zingaretti, Matteo Richetti, Francesco Boccia, Cesare Damiano e il giovane Dario Corallo.

Il segretario non scopre le sue carte, ma pare che la macchina organizzativa si sia già mossa, proprio a partire da Milano dove Martina ha la sua base elettorale. Non si è accesa ancora la luce verde su Marco Minniti, presente alla Leopolda ma silente. L'ex Ministro dell'interno potrebbe sciogliere la riserva in occasione della presentazione del suo libro a Roma il 6 novembre o a Firenze, cui potrebbe partecipare anche Matteo Renzi, finora rimasto dietro le quinte. Sembra invece essere rientrata l'ipotesi che vedeva Teresa Bellanova in pole subito dopo Minniti.

Se sul nome del prossimo segretario è buio fitto, l'unico faro per ora sono le regole. Dopo l'assemblea costituente di Milano, il primo giro di consultazioni è il voto degli iscritti nei circoli. Serve a scremare le candidature, determinandone le prime tre: per accedere alle primarie infatti bisogna prendere almeno il 5%. Il segretario dovrà raggiungere il 50 per cento più uno dei voti delle primarie, aperte a iscritti e a elettori. Una o due settimane dopo le primarie, viene convocata l'assemblea che proclama il vincitore. Se questo non avviene, cosa possibile, l'assemblea vota il segretario tra gli ammessi alle primarie; in questo caso, determinante sarà la composizione della nuova assemblea che uscirà dal congresso.



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