Il voto su Rousseau certifica il sì a Draghi. Di Battista lascia il Movimento

Arriva il via libera degli iscritti M5S al governo Draghi, ma l'esito della votazione online sulla piattaforma Rousseau spacca il Movimento 5 Stelle, segna il risultato peggiore nelle tre consultazioni che hanno segnato la legislatura e determina l'addio di Alessandro Di Battista. I voti favorevoli sono stati infatti 44.177, pari al 59,3% e i contrari 30.360 pari al 40,7%, percentuali lontane da quelle del Conte II, quando la coalizione col Pd fu approvata dal 79,3% dei votanti, e lontanissime dal plebiscito con cui fu approvato il Conte I con la Lega quando dissero sì il 94% dei votanti (che però in termini assoluti erano solo 42.274). Mai in così tanti dunque hanno espresso la loro contrarietà all'ingresso del M5S nel nuovo esecutivo Draghi, ma in ogni caso “la democrazia nel movimento passa da un voto degli iscritti e il voto degli iscritti è vincolante” ha ricordato immediatamente il capo politico reggente del M5S Vito Crimi. Messaggio cristallino ai dissidenti, che fuori dal Parlamento fanno riferimento ad Alessandro Di Battista, il quale a votazioni in corso ancora ha provato a influenzare l'esito attaccando frontalmente l'ormai alleato Silvio Berlusconi e che a risultato certificato dice addio al M5S: “È stata una bellissima storia d'amore ma il sì al governo la mia coscienza non riesce a digerirlo”. Per ora si dice pronto a seguirlo il deputato Pino Cabras che conferma il no alla fiducia; molta freddezza anche da Davide Casaleggio, che stamattina aveva giocato la mossa dell'astensione, subito rilanciata dalla dissidente Barbara Lezzi: alla chiusura del voto il presidente dell'Associazione Rousseau è limitato e rivendicare il valore per la democrazia diretta della consultazione: “Per tutte le valutazioni politiche lascio e rimando agli organi politici del M5S”. Esultano invece Luigi Di Maio e Roberto Fico: per il ministero degli Esteri “la responsabilità è il prezzo della grandezza”, e “oggi i nostri iscritti hanno dimostrato ancora una volta grande maturità, lealtà verso le istituzioni e il senso di appartenenza al Paese. In uno dei momenti più drammatici della nostra storia recente, il M5 sceglie la strada del coraggio e della partecipazione, ma soprattutto sceglie la via europea”. 

Nel M5S c’è aria di scissione. Possibile che nasca un nuovo gruppo politico

Gli irriducibili che nel Movimento 5 stelle non intendono appoggiare il governo Draghi stanno pensando, riferisce una fonte parlamentare, a un gruppo autonomo per posizionarsi all'opposizione. L'obiettivo, viene spiegato, è arrivare a una nuova formazione. Ieri sera il gruppo per il no ad un Governo guidato da Mario Draghi si è incontrato in video conferenza: i nomi sarebbero quelli di Granato, Lezzi, Angrisani, Abate, Cabras, Crucioli, Forciniti, Vallascas, Costanzo, Raduzzi, Volpi, Giuliodori, Maniero, Colletti, ma il malessere coinvolgerebbe diversi esponenti di Camera e Senato. Tra gli altri nomi che si fanno, quelli Moronese, Agostinelli, Naturale, La Mura, Mantero e Vanin; hanno votato no sulla piattaforma Rousseau anche esponenti come Toninelli e Lannutti ma diversi malpancisti potrebbero rientrare, tra cui quei contiani che avevano espresso perplessità e chiesto che nel governo entrasse anche il premier uscente. I frondisti guardano proprio ad Alessandro Di Battista che in un primo momento aveva segnalato di non voler spaccare il Movimento, poi dopo il voto lo strappo e l’addio ai 5 Stelle, passo che potrebbe portarlo nei prossimi giorni a diventare il leader di una nuova formazione politica.  

Draghi tra oggi e domani salirà al Quirinale con la lista dei ministri

Una giornata di lavoro prima di salire al Quirinale per sciogliere la riserva, cosa che dovrebbe avvenire oggi. Terminate le consultazioni, il presidente del Consiglio incaricato Mario Draghi lavora alla squadra dei ministri, senza avere altri contatti con i partiti, cosa che mette in una certa tensione i vertici delle forze politiche che sosterranno il governo. Nel giorno del via libera su Rousseau all'appoggio del M5S al suo esecutivo, il professore ha lavorato tra la sua abitazione e l'ufficio in Banca d'Italia, arrivando alla Camera nel pomeriggio e solo per pochi minuti. Al Colle potrebbe salire questa mattina, con la lista dei ministri, e giurare già nel pomeriggio. Se invece decidesse di andare da Sergio Mattarella nel pomeriggio, il giuramento potrebbe slittare a sabato mattina. Proprio la lista agita i partiti, che sulla partita sono, al momento, totalmente al buio e senza margini di manovra; del resto era stato fatto trapelare nelle scorse ore che per comporre l'organigramma sarebbe stato seguito scrupolosamente l'articolo 92 della Costituzione, secondo cui “il Presidente della Repubblica nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i Ministri”. Ma non è solo questione di forma istituzionale: Draghi sa bene che se andasse a infilarsi in un confronto con le forze politiche sui nomi i tempi potrebbero allungarsi. Dunque, al momento l'unica certezza pare quella che ci sarà un perfetto equilibrio di genere, per il resto occorrerà aspettare. 

Draghi è lavoro sulla squadra di Governo nel massimo riserbo

Il premier incaricato Mario Draghi, tornato a Città della Pieve senza lasciare alcuna certezza dietro di sé, corrisponde alla perfezione a quel “dov'è Mario?” con cui alcuni lo etichettavano a Francoforte, rimarcando il silenzio con cui era solito operare da numero uno della Bce. Anzi, lascia un timore in più nei partiti, quello di mettere insieme la lista dei ministri muovendosi da solo, in gioco di squadra con il Quirinale dove siede il suo più fedele e solido alleato, il Presidente Sergio Mattarella. Il silenzio di Draghi spaventa i partiti: “Niente?”, “Niente”, è la domanda che rimbalza tra i big delle forze politiche. C’è un altro tormentone che sta agitando i partiti, le cosiddette quote rosa: una delle convinzioni che rimbalza, complice l'ansia crescente, è che Draghi voglia una squadra equilibrata anche dal punto di vista della presenza femminile, “un 50-50”, sostengono voci diverse, e che questo indirizzo possa incidere anche nella scelta sugli innesti politici che andranno a far parte del gabinetto del nuovo premier. Ne sa qualcosa il Pd, che in cima alla sua lista vede Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini: uno dei tre potrebbe essere scalzato da Debora Serracchiani o dall'ex ministra Roberta Pinotti. E i 5 Stelle? Stesso discorso: a rischiare sarebbe Stefano Patuanelli, che potrebbe essere superato all'ultima curva da Fabiana Dadone, ad esempio, o dalla sindaca di Roma Virginia Raggi, che tuttavia lascia trapelare di voler restare salda al suo posto, pronta a scaldarsi per la sfida a un secondo giro da prima cittadina. Apparentemente meno problematica la questione della parità di genere per gli altri partiti coinvolti: in Fi, infatti, occhi puntati, oltre che su Antonio Tajani, sulle due capigruppo Anna Maria Bernini e Maria Stella Gelmini, mentre la Lega vanta la carta Giulia Bongiorno da giocare, sempre in coda al super favoritissimo Giancarlo Giorgetti, mentre Iv non fa mistero di volere Teresa Bellanova in squadra. Per i partiti minori l'ex ministra Emma Bonino potrebbe essere la scelta ideale, mentre per Leu il nome sembra essere uno solo: il ministro uscente Roberto Speranza.  

Sul fronte dei tecnici, spuntano anche nuovi nomi, tra cui quello di Livio de Santoli, prorettore della Sapienza ed esperto di sostenibilità, al ministero della Transizione ecologica, dove continua però a essere in pole l'ex ministro Enrico Giovannini, che godrebbe di un sostegno trasversale. Ma c'è anche un altro nome che, paradossalmente, agita i 5 Stelle, ed è quello del premier uscente Giuseppe Conte. Sui ministeri economici la convinzione diffusa è che Draghi metterà sue persone di fiducia a partire dall'economista Lucrezia Reichlin che è tra i nomi più gettonati, ma continuano a circolare anche quelli di Daniele Franco e Luigi Federico Signorini (Bankitalia), Ignazio Angeloni (Vigilanza Bce), Dario Scannapieco (Bei) e Ernesto Maria Ruffini (Agenzia delle Entrate). Elisabetta Belloni è il nome che rimbalza di più per il ministero degli Esteri, anche se in molti credono che alla fine Luigi Di Maio la spunti restando al suo posto. Ci sono poi i nomi di Marta Cartabia, in pole per la Giustizia, e Luciana Lamorgese confermata all'Interno, mentre l'ex Guardasigilli Paola Severino difficilmente entrerà in squadra per l'avversione, evidente, di Forza Italia. Se alla Difesa arriva un tecnico, Lorenzo Guerini potrebbe spostarsi assumendo la delega all'Intelligence e farsi spazio il Generale Claudio Graziano, ex capo di stato maggiore della Difesa. Alla sanità, se Roberto Speranza non deve essere confermato, circola il nome di Rocco Bellantone, direttore del governo clinico del Gemelli e preside della Facoltà di Medicina della Cattolica di Roma: in sole 3 settimane, Bellantone ha creato e poi diretto il Covid Hospital Columbus Gemelli con 350 posti letto attivi; le sue capacità gestionali potrebbero anche proiettarlo ad occupare un altro posto non di governo ma altrettanto determinante: quello del super commissario all'emergenza scalzando Domenico Arcuri, finito nel mirino di diverse forze politiche. Siamo, però, ancora nell’ordine delle ipotesi, perché al momento nulla è certo. 

Zingaretti ottiene l’ok dalla Direzione su Draghi e alleanza con M5S e Leu

La direzione nazionale del Pd approva all'unanimità l'indicazione ai propri gruppi parlamentari di votare la fiducia al governo Draghi, come aveva proposto il segretario Nicola Zingaretti aprendo i lavori con una relazione in cui ha difeso il valore dell'asse con M5S e Leu non solo nel sostegno al passato esecutivo di Giuseppe Conte, ma anche in prospettiva, in vista delle imminenti amministrative e delle successive politiche. Il sì incondizionato a Draghi stoppa ogni tentativo di frenata; il segretario avverte che si va incontro a un governo e a un'esperienza “innovativa” ma che non distruggerà la politica. E quanto al dibattito interno al partito, Zingaretti definisce “da marziani” la richiesta di un congresso e convoca per febbraio l'assemblea nazionale Dem, che dovrebbe aprire il confronto interno sulla futura identità del partito. Per Zingaretti “Il successo del governo attorno al professore Draghi dipende dall'unita di M5S, Leu e Pd”. Insomma il faticoso percorso compiuto con il governo Conte II è stato utile non solo per quanto realizzato da quell'esecutivo, ma sarà determinante anche per il successo di quello dell'ex governatore della Bce; questa alleanza deve ora andare avanti in vista delle amministrative di giugno, quando si voterà nelle maggiori città italiane e dove Zingaretti conta di riportare il successo nella maggior parte di esse. Il rapporto con M5S, ha ammesso, non è stato e non sarà una passeggiata di salute: il segretario Dem ha parlato di “corpo a corpo” con delle “differenze che rimarranno sempre”. Dopo un po’ di polemiche e distinguo giunte da Base Riformista e dall’area facente capo a Matteo Orfini, Zingaretti nella replica ha respinto l'idea di una dicotomia tra identità e alleanza ed ha annunciato la convocazione a febbraio di una Assemblea nazionale dove iniziare a confrontarsi su “una nuova presenza del Pd nel Paese”, quindi più l'idea di un congresso tematico che non metta in discussione l'organigramma attuale. 

 



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