Il Senato dà il via libera: Salvini sarà processato

Il Senato manda a processo Matteo Salvini, per la seconda volta in pochi mesi. Dopo la vicenda Gregoretti, la maggioranza di Palazzo Madama approva compatta, 149 voti favorevoli e 141 contrari, l'autorizzazione a procedere ai danni dell'ex ministro dell'Interno per il caso Open Arms. Salvini viene a sapere dell'esito del voto mentre si trova in macchina verso Milano Marittima, lo stesso luogo, il celebre Papeete, dove proprio l'anno scorso staccò la spina al Governo di cui era vicepresidente del Consiglio e Ministro dell'Interno. “Contro di me festeggiano i Palamara, i vigliacchi, gli scafisti e chi ha preferito la poltrona alla dignità. Sono orgoglioso di aver difeso l'Italia: lo rifarei e lo rifarò” commenta il leader della Lega a caldo. Quindi ripete le parole già usate in aula: “Vado avanti, a testa alta e con la coscienza pulita, guarderò tranquillo i miei figli negli occhi perché ho fatto il mio dovere con determinazione e buonsenso. Chi mi manda a processo mi fa un regalo. Ci vado a testa alta convinto che il tempo è galantuomo”. La sua strategia difensiva è sensibilmente cambiata rispetto alle altre volte in cui si dovette difendere dalle stesse accuse di sequestro di persona; in passato, il suo obiettivo era stato esclusivamente dimostrare che i suoi atti contro le Ong “erano collegiali del Governo” e che quindi, con lui, andavano processati anche Giuseppe Conte e i Ministri Cinque Stelle. Stavolta, invece, secondo Salvini, siamo di fronte a una maggioranza che “sceglie la via giudiziaria e non quella democratica di libere elezioni per battere i suoi avversari politici”. 

Una linea di difesa collaudata, adottata, del resto, per decenni da Silvio Berlusconi. Ed è proprio il Cavaliere che, commentando il voto, ribadisce come “ancora una volta, l'uso politico della giustizia sia l'arma con la quale la sinistra vuole liberarsi degli avversari”. Sulla stessa linea anche la leader di FdI Giorgia Meloni: “Quando saltano le regole dello stato di diritto nessuno è più al sicuro”. La svolta è frutto dei due scandali che hanno reso ancora più complicato il difficile rapporto tra politica e Magistratura: le parole della chat di Luca Palamara ostili a Salvini e soprattutto la bufera giudiziaria che sta travolgendo la giunta lombarda guidata dal Presidente leghista Attilio Fontana, scandali che, sulla carta, hanno avvicinato la Lega e Iv, ambedue convinte che serva urgentemente una riforma della giustizia. Non a caso, infatti, proprio Matteo Renzi, ieri, era il sorvegliato speciale per capire se la sua linea garantista lo avrebbe spinto sino a salvare il leader sovranista; alla fine Iv, cambiando idea rispetto al voto in Giunta, ha mandato a giudizio il segretario leghista. Renzi ha ammesso che l'altro Matteo “non agì per interesse pubblico” e quindi va processato. Tuttavia anche lui ha definito il rapporto magistrati-politica "l'elefante nella stanza", arrivando a chiedere che a settembre “maggioranza e opposizione si siedano intorno ad un tavolo e inizino a discutere del rapporto tra Magistratura e politica”.

La maggioranza trova l’intesa sui decreti sicurezza. A settembre in Cdm

Al quinto incontro al Viminale si è trovata l'intesa tra il ministro dell'Interno Luciana Lamorgese e gli esponenti della maggioranza su un nuovo testo che supera i Decreti Sicurezza di Matteo Salvini. Tra i punti di novità si segnalano la cancellazione delle multe milionarie alle navi ong, l'allargamento della possibilità di accedere alla protezione umanitaria, la revisione del sistema di accoglienza Siproimi e la possibilità per i richiedenti asilo di iscriversi all'anagrafe comunale. Il testo sarà sottoposto all'attenzione delle Autonomie locali, ma di approvazione in Consiglio dei ministri si riparlerà a inizio settembre.  

Non è stato un percorso facile: inizialmente le posizioni tra le diverse forze della maggioranza erano divaricate, con Pd, LeU e Iv che spingevano per un forte segnale di discontinuità con i provvedimenti firmati da Salvini che avevano introdotto, tra l'altro, multe fino a un milione di euro per le navi umanitarie che entravano in acque italiane violando la legge, praticamente cancellato la protezione umanitaria ed eliminato i richiedenti asilo dal Sistema si accoglienza promosso con i Comuni (l'ex Sprar, diventato Siproimi). I Cinquestelle volevano limitarsi ad accogliere i rilievi espressi dal capo dello Stato Sergio Mattarella. Dopo il primo incontro, però, la posizione del Movimento si è ammorbidita aprendo alle modifiche più sostanziali chieste dagli alleati. Lamorgese, con l'Ufficio legislativo del Viminale, ha messo a punto una bozza di decreto che è stata via via integrata cercando di trovare un punto di mediazione tra le richieste dei partiti; e ieri sera c’è stato il via libera politico. Per l'approvazione in Consiglio dei ministri e l'avvio dell'iter di conversione occorrerà tuttavia attendere la ripresa dei lavori parlamentari, confidando che il dossier immigrazione non sia caldo come in queste settimane. 

Tensione nel M5S dopo i voti sui presidenti delle commissioni 

Nel day after della lunga notte delle elezioni dei presidenti delle Commissioni parlamentari, la maggioranza si ritrova con le ossa rotte. Tra gli alleati partono incrociate le accuse di tradimento e se Pd e Iv possono comunque ritenersi soddisfatti per aver portato a casa il risultato, lo stesso non si può dire per il M5S e Leu. Proprio per cercare di ricomporre la frattura e sanare una situazione politica “grave”, così come l'ha definita Roberto Speranza, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà ha riunito ancora una volta i capigruppo alla ricerca di un possibile rimedio. Una soluzione non è stata individuata, ma tra le ipotesi per sedare i malumori c'è quella di utilizzare le presidenze delle Commissioni speciali: quella sulla Sanità è stata offerta a Leu, ma è stata rifiutata dalla capogruppo Loredana De Petris. In ballo c'è anche la commissione Enti gestori, che nell'accordo spettava al senatore Pd Tommaso Nannicini, ma difficile possa rappresentare una reale possibilità di tregua. La trattativa, insomma, ricomincia. 

Mentre nell'aula del Senato si vota l'autorizzazione a procedere per Matteo Salvini, in Transatlantico in tanti puntano il dito contro il M5S. La tensione all'interno del Movimento è alle stelle: le sostituzioni (ben 10) in Commissione Finanze alla Camera hanno fatto uscire allo scoperto i mal di pancia. E se Leonardo Donno, per protesta, si dimette da capogruppo in Commissione Bilancio, anche il sottosegretario all'Economia Alessio Villarosa non le manda a dire: “Nel 2015 il M5S ha criticato aspramente la richiesta di sostituzione forzata, ad opera di Renzi, di 10 deputati del PD della Commissione Affari Costituzionali durante l'esame della legge elettorale. Gli attuali vertici politici e parlamentari M5S hanno compiuto lo stesso atto”, attacca. Il pentastellato dà voce a una lamentela molto diffusa tra i suoi: “Al Pd è stato concesso, oltre al ministro dell'Economia, il Commissario Europeo, due Sottosegretari all'Economia e la Presidenza della Commissione Finanze del Senato e Bilancio della Camera. LEU e IV rispettivamente hanno un Sottosegretario all'Economia e la Presidenza della Commissione Finanze della Camera, mentre per il M5S, principale forza politica in Parlamento, i “nostri” vertici hanno ottenuto solo due Sottosegretari all'Economia e la Presidenza della Commissione Bilancio del Senato. L'assetto istituzionale realizzato non risulta in equilibrio e soprattutto non rappresenta il M5S quale principale forza politica in Parlamento. Con un vero e legittimo capo politico una forzatura così eccessiva, di certo, non l'avremmo mai avuta”. In tanti mettono sotto accusa Vito Crimi: “È rimasto defilato e in disparte mentre gli accordi saltavano come birilli”. Contro il direttorio parte una raccolta di firme che potrebbe far deflagrare tutto, poi la convocazione di un'assemblea per martedì riesce quanto meno a prendere tempo. I sospetti, però, ricadono anche su Iv: si cercano i responsabili che hanno impallinato Pietro Grasso alla guida della Commissione Giustizia.

Conte: la Puglia adotti parità di genere o interveniamo

Il governo Conte concede un'altra chance alla Puglia e attende un’eventuale nuova convocazione del Consiglio regionale per dare l'ok alla doppia preferenza di genere che l'Assise pugliese martedì scorso non è riuscita ad approvare per il venir meno del numero legale, entro i primi giorni della prossima settimana. “Non possiamo accettare” è l'aut aut del premier Giuseppe Conte “che la Regione Puglia non recepisca il principio fondamentale di parità tra uomo e donna per l'accesso alle cariche elettive. Lo Stato non può retrocedere sul punto”. Il presidente del Consiglio, prendendo “atto delle disponibilità di alcuni Gruppi regionali ad approvare urgentemente la norma”, attende “che si completi il processo nelle prossime ore”, ma il “Governo”, avverte, è pronto “a esercitare i poteri sostitutivi”. Due le ipotesi al momento sul tavolo: un decreto legge o la nomina di un Commissario. È ormai una corsa contro il tempo per adeguare alla normativa nazionale il sistema elettorale della Puglia, senza incorrere in ricorsi che potrebbero annullare l'esito delle elezioni. Il governo Conte ha preparato una bozza del provvedimento che ha già incassato il parere positivo dell'Avvocatura, ma sono in corso ancora riflessioni politiche all'interno dell'Esecutivo giallo-rosso.  

L'ipotesi più accreditata è quella di un Dl che obblighi la Puglia a prevedere già per le Regionali di settembre la doppia preferenza di genere e l’inammissibilità delle liste elettorali che non dovessero rispettare la proporzione di genere 60/40. Non è escluso, però, che per aggirare l'ostacolo rappresentato da eventuali ricorsi l'Esecutivo nomini, sempre attraverso un decreto, un Commissario che provveda a sostituirsi al Consiglio regionale; questa soluzione è caldeggiata da Italia Viva e dalla ministra Teresa Bellanova. In Puglia, però, ci sono pressioni da entrambi gli schieramenti sul presidente del Consiglio regionale, Mario Loizzo, affinché convochi entro il 5 agosto una nuova Assemblea per approvare la norma sulla parità di genere; lo ha chiesto, nuovamente, l'intero schieramento di centrodestra, ma anche pezzi della coalizione di centrosinistra.  



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